LE ULTIME RESISTENZE, GLI ULTIMI ASSALTI                    


SUL SENIO A RESISTERE
da NOVANTA UOMINI IN FILA ALLINEATI SUL MIRINO DELLA "37". Sergio Bozza.
 
 
    Quella mattina avevo appena posizionato la mitragliatrice nella nuova postazione quando, improvvisamente, nel silenzio più assoluto, sentii il mio sergente urlare:
    — All’armi! All’armi! All’armi!
    Era un urlo quasi disumano ed erano parole che non avevo mai udito ma solo letto nei giornalini dell’epoca, tipo Cino e Franco, L’uomo mascherato, Il corsaro nero, ecc. Noi sul fronte del Senio, ogni notte, avevamo cinque o dieci motivi di allarme, ma non gridavamo mai. Sparavamo ed era tutto chiaro.
    Inoltre il sergente Perretti Raffaele di Lanciano era sempre stato un capo-squadra tranquillo e sereno, soprattutto nei momenti più difficili. Per questa sua freddezza dava coraggio ai suoi giovanissimi sottoposti. Che diavolo aveva visto per gridare tanto?
    Contrariamente a quanto è scritto nei libri di storia sulla linea "gotica" (e mi dispiace per il magnifico "museo del Senio" di Alfonsine di Romagna) il 21 Aprile 1945, il battaglione "NP" nuotatori-paracadutisti della Divisione Decima Flottiglia Mas, si trovava ancora regolarmente schierato sulla linea del fronte, a Porto Garibaldi.
    Da diciotto giorni era sempre lì. E resisteva bene. I1 21 era una giornata di sole e il cielo era, stranamente, sgombero dai soliti aerei inglesi a caccia di obiettivi da spiare, mitragliare, bombardare, terrorizzare.
    Alle ore dieci circa, ci si era appena svegliati, dopo una nottata attiva nella "terra di nessuno". Uscito dal "bunker" avevo posizionato la mia mitragliatrice Breda 37. La postazione scelta appena fuori, era ottima perché dietro al robusto muretto ornamentale, alto mezzo metro e costituente la cresta dell’argine del canale-porto. Qui una feritoia, scalpellata tra i mattoni, mi offriva un buon riparo e un’ampia visibilità verso l’avanti.
    Ricordo che il canale-porto era, ed è ancora, una specie di fiume largo una ventina di metri, che unisce il mare Adriatico alla laguna di Comacchio. La distanza tra queste due masse d’acqua era, all’epoca, di circa un chilometro e mezzo. Il tratto di terreno che il canale suddivideva tra Nord e Sud, era detto "la striscia" ed era una fetta di palude piatta, spoglia e acquitrinosa, poco erbata, che si estendeva in avanti, per circa cinque e più chilometri, fino alla foce del Reno. La striscia, o "lingua", come è definita dalle pubblicazioni militari inglesi, costituiva "la terra di nessuno", tra noi e l’esercito avversario. Questa estesa e inconsueta "terra di nessuno" offriva grandi opportunità alle pattuglie dei due eserciti contrapposti. A dire la verità i pattugliamenti mobili li facevano solo gli inglesi, mentre i marò degli "NP" si limitavano ad attenderli in appostamenti segreti e insidiosi, occupati solo la sera prima e sempre diversi.
    Tutte le notti si sparacchiava, ma non tanto. Di giorno lavoravano solo gli aerei e le artiglierie inglesi, ma non tanto neanche loro. Sul fronte del Senio l’attività guerresca era almeno dieci volte più intensa.
    I pattugliamenti inglesi, oltre a saggiare le nostre capacità di reazione, servivano evidentemente per individuare e tracciare passaggi attraverso probabili campi minati, per favorire l’avanzata del loro esercito, che noi ci attendevamo di ora in ora. Per quel che ne sapevo, era minata soltanto la pineta della spiaggia e il bordo della laguna. Quest’ultima lambiva la strada Romea, che esisteva allora dove esiste ancor oggi.
    Nella zona vi era un grande numero di "bunker" in cemento armato, che la "Todt" aveva fatto costruire da imprese italiane con evidente funzione di antisbarco. Noi però non li occupavamo perché bersagli troppo facilmente individuabili. Infatti molti erano colpiti, spaccati, rovesciati da enormi bombe di aereo che lasciavano sul terreno delle voragini impressionanti.
    Il "bunker"-trincea-fortino, occupato dalla mia squadra quella mattina appena rientrata da una nottata trascorsa nella "terra di nessuno", era appunto una grande buca prodotta da una bomba di aereo. Era stata coperta con travi e tavole e in realtà era una "tana" dove nasconderci alla vista degli aerei e ripararci dalle schegge.
    All’urlo di "All’armi!", lanciato dal mio sergente, guardai in avanti. Lungo uno stretto canale a me frontale, che si univa al canale-porto in modo quasi perfettamente perpendicolare e parallelo alla vicina strada "Romea" (canale ancor oggi esistente), vidi tre lunghe e strette barche, cariche di soldati. Erano giunte tranquille-tranquille, a circa centocinquanta-duecento metri dalla mia postazione. Erano perfettamente allineate tra loro. Erano perfettamente allineate anche al mirino della mia mitragliatrice.
    Questo piccolo canale, largo tre-quattro metri, era bordato dalle solite canne palustri alte un metro o due, che ne facevano una specie di galleria, per cui i natanti erano visibili solo dalla mia postazione.
    Venivano avanti, gli inglesi imbarcati, remando tutti a "pagaia", seduti perfettamente in centro alle imbarcazioni, in una unica fila.
    Siccome erano a me perfettamente frontali, non vedevo granché in quanto il primo soldato-rematore mi nascondeva tutti quelli che seguivano.
    Sulla punta della prima barca, in piedi, con le gambe leggermente allargate, stava il probabile comandante del gruppo. Fumava la pipa e il profumo dolce del tabacco al miele, forse spinto da una leggera brezza, era arrivato già fino a me.
    Per numerosi anni, quando percepivo quell’odore, mi ricordavo di Porto Garibaldi, delle tre barche, di tutti quei soldati-rematori, di quel comandante. In seguito quel profumo non l’ho più sentito, non so se per mia perdita di sensibilità, o di memoria, oppure perché la pipa è passata di moda. Ma il fatto che sto per raccontare, ivi avvenuto il 21 Aprile 1945, mi è rimasto impresso come un filmato al rallentatore.
    Ho detto che il capo di quelle imbarcazioni stava a prua della prima barca-piroga, con le gambe divaricate, e io vedevo i suoi soldati attraverso il vuoto di quelle gambe, al di sotto del ginocchio. I remi invece li notavo al di fuori. È stato solo attraverso le pale dei rematori che ho potuto stimare il numero dei soldati imbarcati, in trenta unità per barca e quindi novanta in tutto. Qualche mio commilitone, in seguito, ebbe a dire che erano una dozzina per barca, altri una quarantina.
    Sulla prima unità i rematori operavano con una sincronia tanto perfetta, da sembrare i marinaretti di Venezia al saggio di fine anno. Sulla seconda barca i soldati, pur sempre perfettamente allineati e come gli altri seduti al centro del natante, pagaiavano abbastanza bene ma non con la precisione dei primi. Sulla terza, che seguiva le antistanti a non più di dieci-quindici metri, i militari operavano sulle pagaie un po’ più disordinatamente, ma restavano comunque inevitabilmente, in perfetta fila con tutti quelli che precedevano.
    Remavano con calma spostando solo le teste, metà a destra e metà a sinistra. Tutti gli stessi gesti, per cui suppongo che qualcuno chiamasse i tempi di voga. Erano in divisa kaki con l’elmetto a padella che vedevo dal vero per la prima volta. Il comandante, invece, indossava il basco ed ebbi modo di osservarlo così bene, che se lo avessi incontrato per strada in futuro, lo avrei riconosciuto ancora. Era di statura medio-piccola, barba rossa, petto in fuori, stile da spavaldo, meno di trent’anni. Il mio sergente, dopo il grido di "All’armi!" che ha svegliato tutta la nostra linea di difesa, si è alzato in piedi e, tutto sporgente al di sopra del muretto, ha fatto partire una raffica di mitra, tanto lunga che pareva non finire mai.
    Il comandante in testa alle tre imbarcazioni, si è tolto la pipa di bocca con estrema calma. I suoi soldati continuarono a remare con la stessa andatura di prima. Solo due o tre, verso la metà della terza barca, peggiorarono il ritmo, perché smisero di remare.
    Evidentemente nessuno era stato colpito e scambiarono la lunga raffica per una manifestazione di benvenuto, da parte di un loro partigiano.
    Nel frattempo io avevo bloccato "la pesante" sul bersaglio. Anzi era già a posto in quanto, nella posizionatura e messa a punto fatta un’ora prima, avevo posto il fine brandeggio a destra, già regolato sull’asse del canale, a punto zero uguale a mille metri. Ciò aveva posto la linea di mira sulla testa del primo rematore, senza dover rettificare sulle manopole dei minimi spostamenti. Si potrebbe capire che un solo colpo li avrebbe colpiti tutti novanta, dato il loro perfetto allineamento, dovuto alla strettezza del canale. Invece avevo già intuito che in senso verticale l’allineamento era meno esatto, perché la mia posizione sull’argine era più alta di due metri. In teoria, con un solo colpo, avrei infilato la testa del primo e il basso ventre del sessantesimo e sarebbe passato sotto agli ultimi trenta.
    A questo piccolo inconveniente avrei sopperito facilmente "pesando" sulle maniglie e, con le vibrazioni, l’arma si sarebbe sollevata di quei due o tre millimetri, che erano sufficienti a colpire tutti i novanta imbarcati, con due o tre colpi soltanto. Certo che nulla mi impediva di "sciupare" anche cinque colpi o dieci o cento. Ma, non so perché, in quel momento pensavo a un solo colpo o a due. Mi sovvenne che un istruttore d’arma definì il fucile "91" il migliore delle armi simili, perché era di potenza tale da poter trapassare nove uomini, con un solo proiettile. A parte il fatto che non capivo chi poteva aver fatto quell’esperimento, trasformai l’informazione, per analogia, in un calcolo riguardante la mia "37" ragionando così: Se il "91", che ha l’alzo di mira massimo, regolato sui mille metri, trapassa nove corpi umani, la mia mitragliatrice che ha l’alzo di mira regolato sui cinquemila metri ne trapassa cinque volte di più, e cioè quarantacinque.
    Non mi ero mai sognato che potesse verificarsi un’opportunità tanto feroce. E invece eccomi lì. Ma quale crudele e sadico dio della guerra aveva inventato, per me, una così tremenda occasione? A chi chiedevo il coraggio per ammazzare novanta soldati in meno di un minuto secondo? 
    Allora non odiavo tanto gli inglesi da decidermi facilmente a sparare contro quelli. Dopo il campo di concentramento in loro mani, al "211 Pow" d’Algeria, il coraggio l’avrei certamente trovato subito, anzi la gioia della vendetta per il loro trattamento.
    Anche se in guerra vale "morte tua per vita mia", la mia incertezza era angosciosa. Anche se ero un italiano, con divisa e armi italiane, che combattevo in Italia contro stranieri invasori, avrei preferito non trovarmi in quella situazione.
    Pensieri umanitari in quel momento non me ne vennero.
    Ma avrei preferito non trovarmi lì.
    Di solito, quando ero carico di paura, ed era capitato più di una volta, invocavo la mamma. Invece in quel momento implorai: — Papà, cosa faccio? Tu che hai combattuto a lungo nel ’15/18 e sai tutto di guerra, cosa faccio?
    In quel momento di titubante incertezza, il mio sergente, terminata la scarica di mitra, si tuffò nel "bunker" per reperire il giubbetto portacaricatori.
    Nel passarmi accanto, tutto stravolto, mi urlò:
    — Spara, maledetto, spara!
    — Ma se sparo li ammazzo tutti!
    E poi quel "maledetto" a me! Da parte del mio sergente non me lo sarei mai aspettato. Avevo vissuto con lui lunghi e faticosi addestramenti; ero stato con lui sotto vari bombardamenti a pregare che cessassero; avevamo sofferto insieme fame, freddo, disagi; eravamo solidali in tutto; ci volevamo bene; ci stimavamo.
    E poi lo avevo sempre visto coraggioso, calmo e sereno.
    Sempre pieno di buon senso. Auspicava "bene a tutti" anche ai nemici.
    — Spariamoci pure raffiche di panzerfaust, ma vogliamoci bene lo stesso — era una sua frequente battuta.
    Ma perché tanta agitazione? Perché tanta premura? In fondo quei novanta erano miei! Tutti miei! In un minuto secondo potevo sparar loro cinque colpi ed erano più che sufficienti a ucciderli tutti. In un minuto primo avrei potuto far partire trecento colpi e quei novanta sarebbero diventati carne trita. La mitragliatrice era davanti a loro bloccata e loro erano bloccati davanti alla mitragliatrice. Bastava schiacciare il bottone.
    Pensai anche: — Facciamoli prigionieri! Ecco la soluzione! Facciamoli prigionieri! Ci faranno comodo! Così superiamo anche un altro problema: non ci bombarderanno più! Che problemone risolviamo! Basterà gridare: — Ohei! Siete tutti morti! Arrendetevi! — L’unico inconveniente è che abbiamo poco da mangiare! Ma ci arrangeremo!
    Simili a questi furono i miei pensieri in quei tremendi momenti. Mi rendo perfettamente conto che erano assurdi e puerili, ma tali furono e tali li racconto.
    E poi mi venne in mente anche quella fila, così perfettamente allineata, con probabili grandi esercitazioni per rispettarla.
    Me li immagino i loro istruttori: — Stare diritti guardare sempre quelli davanti – guai a chi si sposta – tu al decimo posto stare più in qua – voi due il remo più largo – teste alte – diritte, ecc. ecc. Questo tutto per me; anzi per la mia mitragliatrice, che ora era anche "lei" disciplinatamente allineata lungo la fila di quei novanta.
    Il destino mi aveva riservato l’unico caso dell’umanità, come io fossi stato un grande personaggio della storia. E invece ero piccolo, e mi sentivo ancora più piccolo.
    In tanti addestramenti di guerra nessuno ci aveva insegnato a uccidere. Tutta la scuola era consistita nell’imparare a difenderci, prima di tutto salvandoci. Tecniche tutte diverse, appropriate ai vari pericoli. Come salvarsi dai colpi di cannone, di mortaio, dalle mine, dai mitragliamenti, dalla fucileria, dalle varie insidie. E poi: strisciare - scattare - rotolarsi - interrarsi.
    Quella della buca salva-vita, per noi era una cosa assillante.
    Mai fare più di cinque passi, se non si è adocchiata una buca in cui buttarsi velocemente al primo cenno di pericolo.
    A colpire e a uccidere non ce l’aveva mai insegnato nessuno, anche se l’azione era implicita nel nostro lavoro di soldati. Cioé anche senza insegnamento specifico, capivamo da soli che ogni nemico colpito era un avversario in meno che ci poteva colpire.
    Nel tremendo fronte del fiume Senio in Romagna, non ho mai sparato tanto per sparare; per far vedere che c’eravamo; che non avevamo paura; che anche noi avevamo armi e munizioni; o per nascondere la grande paura che ci teneva sempre compagnia, o la nostra inferiorità di fuoco. Io sparavo proprio per colpire i nemici.
    Lavoravo durante il giorno per individuare i punti dove gli avversari si appostavano di notte. Registravo i dati sul treppiede della "37", e col buio giù raffiche ben precise. Non so se e quanti ne abbia colpiti, ma da molte postazioni non hanno più sparato e altre nemmeno sono state più occupate.
    Ma contro quella fila il discorso era diverso. In pieno giorno, dopo averli visti quasi in faccia, senza preparazione psicologica, tutto all’improvviso, tutto così facile!
    E poi quei poveracci non si potevano difendere. Sparare loro e ucciderli tutti con pochi colpi, mi pareva di compiere una gran vigliaccata.
    Però di vigliaccate ne avevano fatte anche gli inglesi.
    A parte le tante di cui si era sentito parlare, ho personalmente assistito sul "Senio" al fatto che qui racconto.
    Una rara volta che mi sono trovato sul secondo argine verso il retrofronte, vidi un nostro marò che si avvicinava alla linea del fiume, portando un pacco sulle spalle.
    Chissà perché, lasciò il protettivo filare di alberi, sotto i quali, pur spogli, trovava buona mimetizzazione verso l’alto, avviandosi ad attraversare un ampio prato. Non si era accorto che in alto e non troppo lontano, volava la "cicogna". Era un aereo spia, che tutto vedeva e subito comunicava, alle proprie artiglierie, di colpire.
    Arrivò vicino al nostro marò, quasi immediatamente, una scarica di sei colpi di mortaio, a granata anti-uomo. Erano colpi micidiali, perché spandevano tante schegge raso terra e se non si era interrati, sarebbe stato difficile salvar la pelle. E poi altre scariche e altre ancora. Il marò, che in teoria doveva già essere morto, nell’intervallo tra una e l’altra scarica, si alzò in piedi, e zoppicando e tirandosi dietro il pacco, prese a correre per avvicinarsi a un riparo.
    Altre scariche e altro "a terra". Si alzò ancora, ma senza più il pacco e, zoppicando ancor di più, si avviò verso il centro del prato dove esisteva il solco di mezzaria. Le scariche lo seguivano a ogni balzo, implacabili.
    La "cicogna" continuò a girargli sopra, ordinando e dirigendo i tiri col radio-telefono. L’osservatore di quel maledetto aereo (non ho mai saputo perché si chiamasse "cicogna", non poteva non essersi reso conto che quell’uomo era ridotto in fin di vita, ma continuò ugualmente a ordinare granate, anche se come soldato ormai non valeva più niente. Dopo diversi minuti che gli inglesi non sparavano più, due dei nostri tentarono di avviarsi in soccorso e, allora, incominciarono ad arrivare granate anche per loro. Altra attesa e ancora scariche per il ferito, che ormai probabilmente si stava dissanguando. Dopo un altro bel po’ e visto che i primi soccorritori non riprendevano verso il ferito, ne uscirono altri due dall’argine. Immediatamente scariche anche per loro.
    Poi finalmente la "cicogna" se ne andò. Ma era una finta.
    Si era spostata di circa un chilometro, sollevandosi di più, ma il suo osservatore teneva d’occhio la zona. Appena partito un successivo soccorritore, giù granate senza economia anche per lui.
    Niente da fare! Bisognava attendere che quel maledetto terminasse la benzina, sperando che nel frattempo non cessasse di sgorgare anche il sangue del nostro commilitone.
    La "cicogna" ritornò sul posto, fece un giro, poi scavalcò i due argini del fiume, e si inoltrò sui suoi territori di Italia occupata.
    Dopo un lungo tempo di quasi cinque minuti, ci inviò una sola scarica definitiva, come a dirci: "Credevate di fare i furbi".
    Era stata una vigliaccata. Una carognata. Un assurdo consumo inutile di proiettili.
    Forse l’osservatore e il pilota di quell’aereo si saranno scambiati delle festose risate. Forse la guerra la intendevano così.
    Quel ricordo, lì davanti a quei novanta allineati di fronte alla mia mitragliatrice, mi diede un briciolo di odio. Insufficiente però per schiacciare il bottone, che attendeva da quasi cinque secondi. Io ero andato al fronte non per odio verso gli inglesi, ma solo per amore verso l’Italia invasa dai "barbari".
    È inimmaginabile quanti ricordi e ragionamenti possano passare per il nostro cervello, se il cuore batte a mitraglia, come faceva il mio.
    Ritorniamo al fatto reale imminente. Sono sempre lì davanti a quei novanta, tutti ben allineati, con la "pesante" bloccata su quella fila. Dovevo solo schiacciare il bottone.
    Non era nemmeno necessario che guardassi. Tutto sarebbe avvenuto da sé, come un destino già deciso. Ma io ero incerto e angosciato. Tremavo tutto (ma non era un problema per schiacciare il bottone). Solo in quel momento, anzi in quel momento, mi resi conto di più che la guerra è fatta per gente cattiva, che non deve avere amore per il prossimo e pietà per nessuno, di fronte all’obbligo del dovere verso la propria Patria. Insomma una faccenda da "uomini" e io, non lo sapeva nessuno, avevo solo sedici anni e due mesi.
 
 
da NOVANTA UOMINI IN FILA ALLINEATI SUL MIRINO DELLA "37". Sergio Bozza.
Anno di Edizione: 1997. Greco&Greco editori. (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)

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